Correva il 1945 e usciva “Death comes as the end”, che in italiano si chiama “C’era una volta” (titolo pessimo a mio
parere, ma neanche quello originale, a mio avviso, rendeva bene le idee), uno
dei romanzi forse meno conosciuti di Agatha Christie. Di lei si conoscono
soprattutto la serie con Poirot, la serie con Miss Marple e “Dieci piccoli
indiani”. Questo romanzo è qualcosa di diverso... o meglio, per certi versi è
molto diverso, per certi altri è la solita vecchia storia girata e rigirata in
modo da apparire completamente diversa.
Abbiamo una famiglia ricca, un patriarca vedovo con un’amante
giovane e sexy, un figlio privo di carattere, un figlio sexy e donnaiolo, una
figlia vedova che riceve proposte di matrimonio da tutti gli uomini presenti e
che si sente in dovere di accettarne una all’ultima pagina del romanzo, un
ragazzino viziato e sbruffone, una nonna che parla a enigmi, una parente povera
che odia chi la mantiene, un segretario giovane che non è esattamente il
miglior partito per la figlia vedova, un vecchio amico di famiglia da sempre
innamorato della figlia vedova che ha i soldi ma non appartiene a una famiglia
importante, nonché dozzine di servi senza un ruolo ben preciso se non quello di
far notare che si tratta di una famiglia ricca.
E allora dove sta la novità? Siamo a Tebe, anziché a St.
Mary Mead. E siamo nel 2000 avanti Cristo, anziché negli anni ’40.
Vi ho incuriositi? Se la risposta è sì, procedete pure
con la lettura della mia recensione, con la consapevolezza che NON ci saranno
spoiler sul finale.
La trama
Sono passati otto anni da quando Renisenb, appena
adolescente, si è sposata e ha lasciato la casa di suo padre Imhotep. Il marito
è morto e adesso lei è tornata.
Nella tenuta di famiglia vivono:
- Imhotep, che spesso viaggia per questioni legate ai
commerci della famiglia;
- il figlio maggiore Yamhose, con la moglie Satipy, tanto
inetto lui in ogni ambito tranne in quello professionale quanto dominatrice
lei;
- il secondogenito Sobek con la moglie Kait, lui sempre
fuori casa per andare a donne, lei sempre a badare ai bambini litigando con la
cognata Satipy;
- il figlio 16enne, di secondo letto, Ipy, un ragazzino
estremamente viziato e sbruffone dalle cui labbra Imhotep sembra pendere;
- la nonna Esa, che ormai non ci vede più e fatica a
reggersi in piedi, ma che sembra più sveglia di tutti gli altri componenti
della famiglia messi insieme;
- l’anziana “parente povera” Henet, che non fa altro che
spingere gli altri a litigare;
- l’amico di vecchia data Hori, che aiuta Imhotep nella
parte più gestionale dei lavori e che è segretamente innamorato di Renisenb;
- un certo Kameni, un lontano cugino venuto dal nord, che
a quanto capisco è una sorta di segretario o contabile e che è dichiaratamente
innamorato di Renisenb;
- una quantità random di lavoratori e personale di
servizio dal ruolo pressoché nullo.
In questa Inghilterra degli anni ’40 delocalizzata nell’Egitto
di due millenni prima, Imhotep torna a casa dal viaggio di lavoro con Nofret,
una concubina ventenne dalla bellezza schiacciante. Poi riparte per un nuovo
viaggio di lavoro, lasciandola a casa.
Nofret odia tutti e tutti odiano Nofret. In realtà Nofret
è attratta da Kameni, ma lui non ne vuole sapere perché è attratto da Renisenb.
Poi Nofret cade da un dirupo e muore: nessuno sembra
dispiaciuto dalla sua prematura dipartita, mentre Satipy inizia a comportarsi
in modo strano, prima di cadere anche lei dallo stesso dirupo. Nei mesi successivi
i due figli maggiori bevono vino avvelenato (uno muore, l’altro si salva per
miracolo), un contadinello che aveva testimoniato viene assassinato prima di
dare la testimonianza definitiva e il figlio adolescente viene affogato in un
lago. Tutti, a parte Renisenb, Hori, la nonna Esa e forse anche la misteriosa
Henet, sembrano convinti che lo spirito di Nofret si stia vendicando dall’aldilà.
Tutti lo credono, almeno, fino al momento in cui nonna
Esa convoca una riunione in stile riunioni di Poirot con tutti i sospettati e
fa capire al/alla colpevole di essere informata dei fatti. Proprio quando sta
per confidare a Hori i propri sospetti, viene assassinata a sua volta (tramite
una crema avvelenata che ha assorbito tramite pelle).
Renisenb è sempre più smarrita, Imhotep è sempre più
convinto che sua figlia dovrebbe risposarsi col segretario/contabile e
andarsene, Henet è sempre più strana... e tutto resta in sospeso fino al
finale, in cui anche altre due persone (tra cui il colpevole) moriranno.
Struttura
Il romanzo è narrato in terza persona, con punti di vista
alternati, talvolta, anche se in genere quello che va per la maggiore è quello
di Renisenb.
Renisenb, in realtà, non è poi tanto diversa dalle
giovani protagoniste dei rari romanzi della Christie in cui Poirot o Miss Marple
intervengono solo in una fase avanzata delle vicende oppure per buona parte del
tempo stanno in secondo piano.
Il testo è scorrevole e, nonostante i nomi siano molto
inconsueti per chi non conosce l’Antico Egitto, non c’è mai il rischio di fare
confusione dato che sono molto diversi l’uno dall’altro.
Ancora una volta, come sempre accade nei romanzi della
Christie, l’intrigo è costruito molto bene e, fino all’ultima pagina, molte
cose rimangono in sospeso.
I personaggi sono ben costruiti e, seppure in apparenza
possano sembrare un po’ troppo “estremi”, si evince nel corso dei capitoli che
si sono “estremizzati” nel corso del tempo, cosa che a mio parere li rende
piuttosto credibili.
CURIOSITÀ: per sua stessa ammissione Mrs. Christie
scrisse questo romanzo su suggerimento di un egittologo amico di suo marito e,
quando glielo sottopose, a lui non piacque la soluzione al mistero, così lei
decise di cambiarla. Non rivelò mai come intendesse farlo terminare.
Pensiero
post-lettura: “Roger Ackroyd chi?! O.O”
Valutazione
finale: 5/5
Questo romanzo entra dritto al secondo posto della
classifica dei miei preferiti della Christie, e si deve accontentare del
secondo posto soltanto perché, a mio parere, “Dieci piccoli indiani” è
imbattibile.
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